"Il razzismo è come il culo: puoi vedere quello degli altri, ma non il tuo"
(Ascanio Celestini)
Per una serie di avventurosi motivi nella mia casa è entrato un violoncello. Nella mia casa e nella mia vita: lo strumento più vicino all'uomo, per voce, forma e dimensioni.
Ora è nel mio soggiorno, ma siccome non lo so suonare, ingombra come le ali dell'albatros di Baudelaire. Come una tigre in gabbia.
Ci guardiamo. Io lo guardo, e il violoncello guarda me. Rimane la sua bellezza lignea, ma è come se mi rimproverasse di lasciarlo muto, senza saperne trarre la migliore bellezza, che va molto oltre l'estetica della forma.
Me lo piazzo fra le gambe, provo a poggiare l'archetto sulle corde, chiudo gli occhi come Rostropovich, e in effetti scaturisce un suono miracoloso e sgraziato. Tanto miracoloso quanto sgraziato.
Smetto subito, perché la parodia della musica contemporanea viene a noia quasi prima della stessa musica contemporanea.
Poso lo strumento con tutte le cautele e mi allontano per ammirarlo ancora come posso.
Ne sono quasi certo: ora il violoncello mi fa il muso. E' come quando chiedi alla tua partner cosa non va, e lei risponde "niente", e da quel "niente" tu capisci che invece è vero l'esatto contrario: c'è qualcosa che non va.
Il violoncello tace e nemmeno mi guarda più.
Io so cosa dovrei fare per limitare questo spreco di bellezza: prendere qualche lezione.
Lui sa che io so, io so che lui sa che io so.