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SCRITTO SU UN LENZUOLO

(Un monologo teatrale scritto qualche anno fa per lo spettacolo "La Confessione" di Walter Manfrè)
(Alcuni secondi di silenzio. Lei lo guarda risentita)
…Tanto, anche se sta zitto, io lo so perché sta zitto.
Io lo so a che cosa sta pensando.
Da quando ho detto che sono di Palermo io lo so a che cosa sta pensando.
Ormai ci sono abituata. Ci siamo abituati.
Ogni volta che dico Palermo tutti dicono la stessa cosa: Palermo, mafia.
Certuni ridono, anche.
Oppure non dicono niente. Stanno zitti.
Però io lo so a che cosa stanno pensando e a cosa sta pensando lei nella sua testa: Palermo, mafia.
Palermo virgola mafia.
Oramai nemmeno ci faccio caso.
Anzi. Non dico che mi fa piacere, ma insomma…
Perlomeno così so che ai suoi occhi e agli occhi del mondo, sono qualcuno di preciso. Una mafiosa.
Lei sta pensando che sono una mafiosa.
Meglio di niente. Quasi meglio di niente.
Però…
Però c’è stato un momento in cui io dicevo Palermo e non c’era bisogno di vergognarsi. Anzi.
Fu all’indomani delle bombe di Falcone e Borsellino.
Successe qualcosa a Palermo subito dopo le bombe che ancora a Palermo ce lo raccontiamo, e quando ce lo raccontiamo siamo orgogliosi di noi.
Orgogliosi e senza cuore per ricordare altro.
Successe che soprattutto le donne, noi abbiamo preso i lenzuoli di casa - certe volte persino i lenzuoli buoni, se non ce n’erano altri - e ci abbiamo scritto sopra con le bombolette che non ne potevamo più.
Io, per dire, ho preso un lenzuolo matrimoniale bello grande e ci ho scritto sopra: ORA BASTA!
Col punto esclamativo.
Questi lenzuoli poi li abbiamo appesi alle finestre e li abbiamo lasciati là, coi mariti che certe volte ci pigliavano in giro.
Ma noi ce ne fregavamo dei mariti e di tutto, e i lenzuoli li mettevamo ogni mese, il diciannove e il ventitré, che erano i giorni delle bombe.
E ci incontravamo, pure, ogni mese.
E facevamo cortei.
Una volta mi ricordo che abbiamo fatto una catena umana che andava da un capo all’altro della città.
Fu la prima volta che a qualche forestiero che ci chiedeva, noi gli rispondevamo che eravamo di Palermo, e glielo dicevamo orgogliosi di dircelo.
Lo sapevamo che quelli, quelli c’erano sempre e sempre si facevano gli affari loro, fregandosene di noi, dei cortei, dei lenzuoli e delle catene umane.
Magari bombe non ne mettevano più, ma gli affari loro continuavano a farseli e se li fanno ancora.
Noi però non lo facevamo per loro. Lo facevamo per noi.
Non importavano loro. Importava che quella era la prima volta che ci ribellavamo.
Dico noi donne, ma pure noi palermitani.
La prima e l’ultima volta.
Non so veramente perché.
Cominciò a finire perché alle riunioni del Comitato ci venivano meno persone. E poi sempre meno.
E poi cominciammo pure noi del Comitato a vederci meno spesso.
E alle manifestazioni finì che ci andavano quattro gatti.
(…)
Forse si può capire.
In fondo quando ci muore qualcuno succede lo stesso: si piange, si piange, si piange e ci pare che non si deve smettere mai di piangere per tutta la vita.
Invece no, poi si finisce di piangere e si esce da casa perché magari la spesa bisogna farla, ogni tanto.
Uno si fa una ragione di tutto.
E’ umano, è normale.
Certo che è normale.
Lei che dice? Non è normale?
Certo, che è normale.
(…)
Ma allora, se è normale, perché io allora un poco mi vergogno?
Eh? Me lo dice lei?
Perché io ora mi vergogno?

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Roberto Alajmo | 15/05/2010

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