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L'INCERTO MESTIERE DEL LIBRETTISTA

(Il testo che trovate qui sotto è quello scritto a latere del libretto di Ellis Island, Opera di Giovanni Sollima andata in scena qualche anno fa al teatro Massimo di Palermo)
Scrivere qualcosa a proposito di qualcosa che si è scritto è difficile e imbarazzante. Difficile perché si suppone che le cose da scrivere siano già state scritte e che dunque il pubblico-lettore – se ne ha voglia - sia in grado di farsene un’idea in maniera autonoma.
Imbarazzante perché si tratta di fare quel che certi pessimi raccontatori di barzellette fanno ogniqualvolta non si ritengono soddisfatti dell’ilarità suscitata presso i loro ascoltatori: spiegare la storiella appena raccontata. Col risultato di peggiorare la situazione.
Questo per dire che un’opera – ammesso che Ellis Island sia un’opera - non è poi molto diversa da una barzelletta: se è in grado di camminare sulle sue gambe, bene; altrimenti pazienza, inutile insistere. O è stupida la barzelletta, o è stupido chi la racconta, o è stupido chi l’ascolta. In tutti e tre i casi, una spiegazione difficilmente può riuscire a migliorare lo stato dell’arte.
Da questa premessa consegue che la lettura di questo articolo potrebbe anche concludersi qui. Buon ascolto, grazie per l’attenzione e scusate tanto.
Nel caso che invece stiate ancora leggendo, tanto vale raccontare come nasce un’opera lirica dei nostri tempi, e tanto vale cominciare dall’inizio.
L’inizio è Giovanni Sollima seduto davanti a me: io mangio e lui parla. Parla di scrivere un’opera assieme: io il libretto e lui la musica.
A parte la spartizione dei ruoli (ci mancherebbe il contrario) stento a capire di cosa stia parlando. Mi sforzo di fare una faccia intelligente-partecipe ma non so se il risultato è credibile. Forse sì, perché Sollima va avanti, mi rivela anche il soggetto a cui ha pensato: Ellis Island. Qui la faccia che riesco a fare è sinceramente illuminata, so cos’è Ellis Island, e non ho bisogno di farmelo spiegare da lui: l’isola al largo di New York dove venivano ammassati gli aspiranti immigrati negli Stati Uniti.
Appurato questo, però, la situazione non migliora. E’ un problema caratteriale, credo. Tanto Sollima è positivo, grandioso e vulcanico, oltre che geniale, quanto invece io sono scettico, minimalista e pigro nella sintetica accezione siciliana di lagnuso. La mia prima obiezione, in quest’ottica è: ma che cos’è, come si presenta un’opera lirica contemporanea? Volendo escludere la riproposizione del classico schema melodrammatico – il tenore ama il soprano ma il baritono non vuole – resta da colmare un sostanziale buco (almeno nei gusti del pubblico) che dura da Puccini ai giorni nostri. E dovremmo essere proprio noi a colmarlo?
Io continuo a mangiare e Sollima continua a parlare. Il soggetto e la sfida mi attraggono molto, ma il mio pessimismo aumenta quando capisco che lui vorrebbe mettersi al lavoro subito, sulla base dell’impeto creativo del momento. La mia obiezione è: che cosa bisogna immaginare, prima ancora di scrivere? Un ciclo di lieder per canto e pianoforte o una grande epopea con tanto di coro e orchestra? A parte tutte le sfumature intermedie, la differenza non è da poco, specialmente in fase di concezione. Su questo punto non ci sono certezze: bisognerebbe avere una committenza precisa con cui misurare le nostre idee. E siccome di committenza nei discorsi di Sollima non c’è traccia, chiediamo il conto e ci salutiamo d’accordo su tutti i punti di massima ma, per il resto, nella vaghezza assoluta.
Dissolvenza. L’idea rimane a decantare per alcuni mesi...
(1, segue)


(Illustrazione di Loredana Salzano)

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Roberto Alajmo | 25/05/2010

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