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COPERTINA MATTO AFFOGATO


L'INCERTO MESTIERE DEL LIBRETTISTA (III)

(Terza e ultima parte)
Uno dei problemi centrali da affrontare è la struttura portante: esclusa in partenza una trama convenzionale, decidiamo di fare a meno anche di qualsiasi intelaiatura drammatica. Nasce l’idea di un Finto Reportage Musicale, dove i diversi contributi raccolti sul tema vengano alternati in modo da formare una sorta di disegno che si protrae nel tempo, senza colpi di scena, agnizioni, astratti furori, morali da trarre o, peggio ancora, già tratte.
Su quest’idea abbiamo bruciato almeno una decina di versioni successive, progressivamente sempre più asciutte e meno prosaiche. A un certo punto la mortificazione del testo - normalmente dolorosa, per l’autore – si è trasformata in una sorta di pratica ascetica. Tutto il dimagrimento del libretto si è rivelato come una dieta di quelle che comportano immediati sacrifici, ma che in prospettiva garantiscono leggerezza e benessere.
Nel libretto non ci sono nemmeno versi veri e propri. La metrica è consistita in qualcosa di molto più artigianale, qualcosa che somiglia a spingere e stringere le parole fino a farle entrare nella musica, cercando di accorciare le gambe del tavolo fino a quando non la smette di traballare. Le singole parole rimangono certe volte da sole a galleggiare nel testo, rappresentando non solo se stesse, ma anche la suggestione delle intere frasi che invece sono state tagliate attorno a loro. Mancano del tutto anche le didascalie, in modo da lasciare al regista la massima libertà di manovra, nel rispetto delle rispettive sfere di competenza.
La versione provvisoriamente definitiva è qualcosa di molto difficile da definire se non con la formula di partenza: Finto Reportage Musicale. Dentro ci sono interviste, testimonianze, dati, numeri, contributi filmati, canzoni d’epoca, citazioni, nomi.
Ci sono le diversità linguistiche fra americani ed emigranti, ma anche fra gli stessi emigranti, che parlando ognuno la propria lingua trasformavano la grande aula di Ellis Island in una torre di Babele.
Ci sono le parole scritte sulla statua della libertà:
Give me your tired,
your poor, your huddled masses
yearning to breathe free,
the wretched refuse
of your teeming shore.
Send these, the homeless,
tempest-tossed to me,
I lift my lamp
beside the golden door!
C’è il luogo di purgazione che era quel centro di accoglienza e smistamento, dove gli individui subivano una mutazione identitaria e perfino onomastica: il loro nome veniva trascritto alla meno peggio, storpiato o addirittura radicalmente cambiato.
C’è il questionario standard di ventinove domande, alcune addirittura surreali, che venivano sottoposte all’aspirante emigrato; ne sbagliavi una ed eri fuori. L’ultima, quella decisiva, era: lei ha intenzione di uccidere il presidente degli Stati Uniti d’America?
Ci sono i funzionari che avevano il compito di filtrare questo flusso di disperazione sulla base di quel che davvero serviva agli interessi del Paese.
Ci sono i funzionari-medici che si aggiravano fra le file degli emigranti impugnando un piccolo uncino, quasi uno strumento di tortura, che serviva a rovesciare le palpebre dei soggetti scelti a campione. In questo modo veniva riscontrata la presenza invalidante del glaucoma, malattia degli occhi allora particolarmente temuta.
Ci sono i gomitoli di lana che gli emigrati lasciavano nelle mani dei parenti venuti a salutarli al porto. Un capo del filo restava invece a loro, e quando la nave salpava il gomitolo cominciava a dipanarsi, fino a rimanere sospeso nel vento.
C’è un personaggio femminile principale che potrebbe chiamarsi Memoria.
C’è la donna che per mesi rimase incastrata a Ellis Island perché la sua famiglia morì durante il viaggio e lei, arrivata in America, scoprì che le donne sole non potevano essere ammesse negli Stati Uniti.
C’è la scelta dei padri di famiglia chiamati a decidere cosa fare quando un singolo componente - un figlio, o una madre - veniva respinto: andare avanti lo stesso senza di lui o tornare tutti indietro?
C’è la formidabile avventura che Tommaso Bordonaro racconta nella “Spartenza”.
C’è John Martin, trombettiere italiano di Custer, unico sopravvissuto di Little Big Horn grazie alla sua capacità di corsa. Quella capacità di corsa che è l’ingrediente metaforico essenziale per sopravvivere, prima ancora di avere successo, nel Nuovo Mondo.
Tutti questi materiali sono autentici, per nulla inventati, e nello stesso tempo falsi, scarnificati, pettinati, rielaborati, parafrasati in continuazione. Le parole veramente mie sono tutto sommato poche, a fronte delle citazioni adoperate.
Il resto della storia di questo spettacolo è quasi cronaca, e il risultato finale quello che sentirete. Quanto alla mia esperienza, posso solo aggiungere che, nel suo piccolo, il libretto è qualcosa di strettamente legato alla musica, e mai vorrei che venisse letto a prescindere da essa. Per chi esercita il mestiere di scrivere, cimentarsi con un libretto d’opera somiglia a una di quelle avventure stravaganti che si fanno specialmente in gioventù: toga-party, bagni di notte, amorazzi estivi, acquisto di fazzolettoni copricapo palestinesi. E’ bello azzardarsi, ma difficilmente poi succede di tornare a provare. Parafrasando ancora una volta: un’esperienza divertentissima che per molti motivi non ripeterò mai più.

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Roberto Alajmo | 27/05/2010

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