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REMIX: ALLORA MEGLIO NIENTE

(Qualcuno potrebbe dire: fuori gli esempi. Questo risale a un paio di anni fa. Adesso per fortuna le statue sono state messe da qualche altra parte. Ma insomma: è il pensiero che conta)
A piano terra del Palazzo di Giustizia di Palermo hanno trovato ricovero le statue di Falcone e Borsellino che qualche mese fa erano state vandalizzate in via Libertà.
Al centro di uno dei saloni, nel vuoto circostante, c’è un rettangolo tre per cinque di prato-moquette color verde pisello. Falcone è seduto su una panchina, Borsellino all’impiedi, con una sigaretta fra le dita. Sulla panchina c’è una piccola lapide con una frase d’impegno antimafia stilata dall’autore delle statue, che si firma anche sul bracciolo, con un autoadesivo bianco e rosso. Sullo sfondo, due piante e le bandiere italiana ed europea. Tutto intorno hanno messo un cordone di rispetto, di modo che a nessuno venga in mente di avvicinarsi troppo.
Le statue sono realizzate in gesso o cartapesta, verniciate di un verde bruno che vuole somigliare al bronzo. Le figure dei due magistrati sono bassine e un po’ sformate. Se la cosa non suonasse offensiva si direbbe che sembrano due nani. La descrizione dovrebbe bastare a stabilire che, con tutto il rispetto per l’artista e i suoi ottimi propositi, le statue risultano di una discreta bruttezza. Bruttezza aggravata dalla solenne collocazione.
Naturalmente il senso estetico non è materia obbligatoria per i rappresentanti delle istituzioni, anche se dovrebbe. E inoltre ogni artista è libero di esprimersi come preferisce. Il problema è che l’eccesso di zelo non è indolore, né gratuito. L’antimafia da parata produce danni. Chi passa davanti a quelle statue, tanto più nel luogo dove la giustizia viene amministrata, è portato a pensare che Falcone e Borsellino erano due nani di cartapesta.
Tutto qui, quello che a Palazzo di Giustizia hanno saputo produrre per ricordare i due magistrati simbolo? L’esempio per i posteri funziona: ma al contrario di come dovrebbe. Come deterrente.
Il fatto è che sotto l’ombrello dell’antimafia trova riparo tutto quello che si autodefinisce tale. Non ci sono filtri, criteri, discriminanti, pregiudiziali che tengano: passano tutti, purché ciascuno autocertifichi le proprie buone intenzioni. Finché si tratta di allungare il curriculum di qualche artista, passi. Ma in nome dell’antimafia vengono avallate iniziative di ogni genere, senza timore che risultino dispersive. Non è solo il fatto che possano essere retoriche o di piccolo cabotaggio provinciale: è che, in definitiva, risultano controproducenti. Creano un ronzio di fondo che alla lunga manco si percepisce più, ma produce inquinamento sonoro e narcotizzazione delle coscienze. Anche in occasione del danneggiamento delle statue di Falcone e Borsellino si era discusso molto di niente. Sulla stampa era divampato uno di quei fuochi di paglia che si spengono presto, ma nel frattempo distolgono l’attenzione dalle questioni più importanti. Tutte chiacchiere e nemmeno distintivo.
Anche senza dover ricordare il caso estremo del premio antimafia organizzato dal boss di Villabate, a forza di compiti scolastici, commemorazioni, poesiole, recital, spettacolini e statue di cartapesta si è inflazionato un genere che avrebbe necessità, viceversa, di mostrarsi competitivo sul piano dell’etica e della ragione.

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Roberto Alajmo | 11/06/2014

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