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L’ARTE DI RACCONTARE È POCO DEMOCRATICA

Dopo la conferenza un’amica osserva: non le racconti mai, queste storie, quando sei a cena con gli amici. Mi rimprovera di diventare silenzioso quando la conversazione coinvolge più di due persone e meno di trenta. E ammetto: quando mi trovo in gruppo, anche con gli amici più intimi, un po’ tendo a estraniarmi, lasciando agli altri tutte le parole.
È sicuramente una questione caratteriale, ma non solo. Il fatto è che in una situazione conviviale l’attenzione delle persone è troppo labile. Non si possono infilare tre parole di seguito senza essere interrotti da qualcuno che vuole fare una battuta, che ha già capito, che non è interessato, che conosce già la storia, che la conosce meglio, che ne conosce una migliore, che pensa di saperla raccontare meglio. Fateci caso: è raro che a tavola o in salotto a qualcuno sia consentito di raccontare una storia filata, senza che qualcuno non intervenga a spezzargli il ritmo. Le storie non meritano di essere raccontate male. Meglio tenerle da parte, allora.
Un po’ è l’impazienza dei tempi, un po’ maleducazione. Ed è un vizio tipicamente italiano: nessuno sa più rispettare i tempi di un racconto. Ogni conversazione in Italia è un quartetto d’archi dove gli esecutori si rubano lo spartito a vicenda.
Siamo un popolo di besserwisser, parola che in italiano si può tradurre più o meno “quello che crede di saperla più lunga”. Paradossalmente in Germania esiste la parola per dirlo, ma il fenomeno è meno diffuso, forse per una questione sintattica: nella lingua tedesca il verbo è piazzato alla fine della frase, e per sapere di cosa sta parlando il proprio interlocutore bisogna avere almeno la pazienza di lasciarlo finire.
Nelle conferenze, invece, i ruoli sono definiti. Uno parla e gli altri è previsto che stiano ad ascoltare più o meno in silenzio.
Può sembrare poco democratico, magari. Ma le storie respirano, e vengono molto meglio.

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Roberto Alajmo | 25/03/2013

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