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E' stato il figlio


LE CASE DEGLI ALTRI

Cerco casa da un paio d’anni. Ho una piccola somma da investire e mi sono stufato di stare in affitto. Voglio una casa anche piccola che però mi appartenga. Una casa da lasciare a mio figlio in modo che un giorno lui possa usare l’espressione “la casa che mi ha lasciato mio padre”. Lo ammetto, qualche anno fa avrei sorriso di un pensiero del genere. Ma a quanto pare si invecchia un po’ tutti.
Nel protrarsi della ricerca di un appartamento c’è un anelito di perfezione, ma anche una piccola perversione che è arrivato il momento di ammettere anche di fronte a me stesso.
A me piace vedere le case degli altri. Mi piace moltissimo.
Me ne sono accorto dopo le prime visite, quando alla delusione (“non è quello che cerco”) si affiancava un altro sentimento collaterale – positivo, questo - che derivava dall’aver aperto un varco nella vita di perfetti sconosciuti. Da ogni appartamento si può ricavare la storia delle persone che lo possiedono o che lo hanno abitato, e sono universi molto affascinanti. Spesso negli appartamenti vuoti si trova qualche mobile vecchio, riviste fuori corso, giocattoli dismessi, effetti personali che i proprietari hanno ritenuto ormai inservibili anche come ricordo. Ai miei occhi un appartamento semivuoto rappresenta un formidabile giacimento di memoria. E come potenziale acquirente io ho diritto di visitarlo, trattenendomi quanto voglio per impadronirmi della memoria altrui.
Meglio ancora quando l’appartamento è ancora occupato. Quando la vita pulsa e scorre fra stanze e corridoi, e io posso osservarla dall’interno, come uno dei protagonisti di quel film degli anni Sessanta intitolato “Viaggio Allucinante”, dove alcuni scienziati venivano miniaturizzati e iniettati nel sistema sanguigno di una persona.
Se l’attuale inquilino è in affitto si crea sempre una tensione negativa, ma anch’essa interessante, da un punto di vista narrativo. L’affittuario è tenuto a rendere l’appartamento disponibile alle visite in certi giorni e per un certo numero di ore, ma dall’atteggiamento si capisce subito che odia ogni potenziale compratore. Lascia capire che se anche io mi decidessi a comprare, lui non mollerebbe la casa manco morto. Entrando in una casa data in locazione, malgrado tutte le rassicurazioni del venditore, io so già che non la comprerò. La vedo solo perché mi incuriosisce la vita che c’è dentro.
Discorso diverso se a occupare l’appartamento è lo stesso proprietario, che magari ha già un’altra casa che lo aspetta e vuole sbarazzarsi di questa.
Anche quando a prima vista capisco che una casa non fa per me, io mostro sempre di essere interessato, lascio che la visita duri almeno dieci minuti, il tempo di spiare qualcosa della vita delle persone che abitano lì. Immaginare quali sono le dinamiche familiari, cosa mangiano quel giorno, come sono le loro serate, quale problema od opportunità si nasconde dietro la loro esigenza di vendere. Non manco mai di vedere che libri leggono, se ne leggono: e se non ce ne sono in giro mi sento confortato nell’idea di non comprare una casa così ignorante.
Di ogni casa immagino sempre i lavori di ristrutturazione che servirebbero per andarci ad abitare davvero, pur sapendo che non ne varrebbe la pena. Come sarebbe la mia vita lì dentro? È uno sforzo inutile, ma il gioco inconfessabile consiste pure nello sprecare energie immaginative. Nel fare un romanzo di ogni casa che visito.
Ecco il punto. Molte persone leggono romanzi per illudersi di vivere altre vite. Perché considerano la loro troppo breve e insoddisfacente. Così approfittano della possibilità, mediante il semplice gesto di aprire un libro, di essere almeno per un po’ Anna Karenina o Corsaro Nero. Qualcosa di molto simile è diventata la mia ricerca di una casa dove abitare.
Immaginare - e anzi: vivere - altre esistenze oltre la mia.

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Roberto Alajmo | 03/04/2013

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