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REMIX: OGNUNO CON LA VERNICE SUA SCRIVE QUEL CHE GLI PARE

(Una prefazione per Geraldina Piazza) Il titolo di questa specie di repertorio è di quelli che già significano tutto. E’ proprio vero: ognuno con la vernice sua ci scrive quel che gli pare. Una dichiarazione poetica che fa il paio con l’altra, apparsa su un muro della stazione di Milazzo: “Coquistati ogni giorno la tua libetà” (sic, sic).
Solo che già qui cominciano i problemi di carattere etico. Cioè: fino a che punto puoi prenderti la libertà di maltrattare la grammatica e il senso comune, fino a che punto puoi rendere visibili le tue opinioni solo per il fatto di possedere una bomboletta spray o anche solo un semplice pennarello? Ci mancherebbe che ognuno con la vernice sua non ci potesse scrivere quel che gli pare, ma la libetà di ognuno finisce dove comincia la libertà di tutti gli altri.
La vernice è tua, ma il muro e anche l’occhio di chi guarda non ti appartengono. Non puoi disporne a tuo piacimento. Ferma restando la libertà di espressione, esiste pure la formula anglosassone NIMB (Not In My Backyard) che dovrebbe fungere da argine allo straripamento dell’ego.
Il possesso di una bomboletta di vernice – o di un pennarello, o di una tipografia compiacente – diventa troppo spesso diritto a esprimere la propria vena artistica a prescindere da qualsiasi competenza. Chi scrive sui muri, specialmente, pensa di potersi impadronire di uno spazio pubblico (o altrimenti privato) solo per la forza del diritto che si è autoconquistato comprando una bomboletta di vernice.
Dal punto di vista dell’occhio che guarda, la difesa contro l’effusione delle opinioni murali può essere una sola: l’ironia. Che coincide, letteralmente, con la presa di distanze. In questo caso si tratta di prendere le distanze dall’ignoranza e dalla volgarità. Naturalmente la gradazione dell’ironia è un’altra questione. Ridere dell’altrui ignoranza può essere altrettanto volgare dell’ignoranza stessa, se non di più.
C’è però da considerare che alcune di queste scritte possiedono una genialità più o meno volontaria che merita di essere premiata. Nel caso di queste eccezioni bisogna sforzarsi di ridere con, facendo eccezione al ridere di, da applicare alla stragrande maggioranza degli altri casi.
Ma esiste un’altra attenuante all’ignoranza e alla volgarità, almeno nella rappresentazione che ne viene fatta in questo libro. Bisogna infatti considerare che quasi tutte le fotografie che si trovano in queste pagine sono irripetibili. I vari modelli sono stati scoloriti, strappati, riverniciati. Hanno subito la censura degli uomini e del tempo. Non esistono più.
Questa loro fugacità dovrebbe intenerire l’occhio che guarda e persuaderlo all’indulgenza, stemperando le punte di sarcasmo che rischiano sempre di avvelenare l’ironia. Gli strafalcioni del passato - e quelli della nostra infanzia, specialmente – acquistano sempre un che di affettuoso, una patina di compassione al cui fascino è difficile sottrarsi. La trivialità che copriva un muro monumentale ieri sembra sempre meno peggiore di quella che lo copre oggi, dopo che quello stesso muro era stato pazientemente riverniciato dai proprietari o dalle maestranze comunali. E’ come se a ogni lavacro corrispondesse una degradazione peggiore, perché sul piano dell’ostinazione la stupidità non ammette di essere messa in discussione.
Gli strafalcioni perduti sono proustiani. Così come proustiano era l’elogio della cattiva musica: quel Mozart suonato da mano principiante che viene a fare da miracolosa colonna sonora a un particolare momento della nostra esistenza. L’occhio che guarda alla fine tiene conto di tutte queste attenuanti. E questo ha di divino: che alla fine perdona loro. Perché non sanno quello che fanno.

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Roberto Alajmo | 28/10/2013

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