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OGGI SULL'UNITA'

La vicenda dell’imprenditore di Gela passato direttamente dall’eroismo antiracket all’accusa di riciclaggio è a suo modo esemplare dei danni che può fare l’eccesso di zelo, anche quando è animato dalle migliori intenzioni. Non bisogna aver pudore ad ammettere che, forse nella speranza di dare un segnale positivo, negli ultimi anni qualcuno è stato arruolato alla causa della legalità con fretta eccessiva di gettare il cuore oltre l’ostacolo e innescare il circolo virtuoso dell’insurrezione antimafia. Non sarà probabilmente nemmeno un caso isolato, ed è successo già in passato. Qualcuno ricorderà la vicenda del boss di un paese alle porte di Palermo, che s’era concesso il paradosso di organizzare e consegnare un premio-legalità a Raoul Bova, in quanto interprete televisivo del Capitano Ultimo. Il problema è che con gli arruolamenti frettolosi si ottiene un risultato diametralmente opposto a quello desiderato. Il contraccolpo psicologico di un abbaglio del genere è micidiale, e il pessimo messaggio che arriva all’opinione pubblica diventa: è tutto uno schifo, tanto vale lasciare le cose come stanno. Viceversa, risultati duraturi in questo campo si ottengono solo limitando la retorica e combinando il rigore all’efficienza: la vittima del racket va individuata con certezza e aiutata con rapidità. Il resto è solo antimafia da parata. Dietro la retorica, che tanto è sempre gratuita, spesso si nascondono le mistificazioni. E ogni mistificazione non è solo un danno erariale, ma anche un micidiale veicolo di propaganda negativa. La mafia occupa sempre lo spazio che le si concede, e ci mancava solo questa: il rilascio delle patenti di onestà. Viene da ripensare al famoso articolo di Leonardo Sciascia sui professionisti dell’antimafia. Un articolo sbagliato nei modi, nei tempi e negli obiettivi personali. In tutto, insomma, tranne che nell’idea di fondo.

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Roberto Alajmo | 09/12/2008

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