LA DOMENICA ANDAVAMO A PIANO BATTAGLIA
dicembre 2005 Per arrivarci bisognava alzarsi presto; se no, non ne valeva la pena. Il viaggio durava tre ore, come minimo, perché l'autostrada finiva miseramente subito dopo Trabia. Attraversando Termini Imerese facevamo la prima colazione, e il primo mangiarino consisteva in una danese Bovaconti (produzione locale, alla ricotta o crema gialla; praticamente una versione meridionalistica delle madeleine). Poi si riprendeva la strada, e grazie anche alla danese cominciava il senso di nausea. Solitamente cominciavo a vomitare subito dopo Campofelice di Roccella, tanto che a Collesano toccava fermarsi nuovamente prima di affrontare l'ultima micidiale serie di curve stradali. Se non bisognava mettere le catene, operazione che fra imprecazioni e mani gelate poteva durare anche tre quarti d'ora, era ormai questione di poco. Di solito si posteggiava la macchina al primo cartello che indicava la meta, una scritta in bianco su fondo azzurro che significava: basta curve, basta nausea, basta vomito. Era sufficiente ultimare la bardatura anti-freddo con guanti e cappellino, e il divertimento poteva cominciare. Piano Battaglia era il posto dove i palermitani andavano a zappare la neve. Ché di questo si trattava, più o meno: zappare la neve. Con stili diversi, modalità e attrezzature diverse, ma sempre e comunque: zappare la neve. I primi anni, per zappare la neve possedevo uno slittino giallo, di legno, paragonabile al Rosebud di Citizen Kane se non altro sul piano delle rimembranze. Era questo slittino un segnale di evoluzione sociale, considerato che il surrogato più frequente consisteva nei sacchetti scuri della spazzatura, che scivolavano sulla neve garantendo una parziale manovrabilità e occupavano meno spazio in macchina, specialmente al ritorno, visto che venivano lasciati sul posto, a maculare di nero il candore della conca innevata. L'era dello slittino durò relativamente poco, soppiantata brevemente da quella contraddistinta da un bob di plastica rossa e infine da quella gloriosa dello sci pionieristico. Perché, sebbene oggi faccia scalpore solo immaginarlo, ci fu un tempo in cui gli impianti di risalita non esistevano, e allora gli sciatori stakanovisti che proprio non potevano fare a meno della loro dose domenicale di discese libere dovevano sobbarcarsi pure una razione proporzionale di risalite a piedi. Per la precisione, a ogni trenta secondi di discesa corrispondeva più o meno un quarto d'ora di risalita. La condanna non era resa meno lieve dal fatto che si potevano scegliere le modalità di espiazione di risalita: a spina di pesce o a scaletta. Sconsiderato era levarsi tutto e risalire a piedi, sci in spalla, visto che poi per riallacciarli ci voleva un altro quarto d'ora di battaglia fra fibbie e lacci. Inoltre, gli sci del tempo erano lunghissimi, praticamente impossibili da tenere bilanciati in spalla, come consigliavano gli esperti. Provavo, certo; ma nella coordinazione fra gli sci serrati, le racchette, il passo che affondava nella neve, c'era subito qualche fattore di rottura, e gli altri seguivano immediatamente in una debacle di frustrazioni concatenate. Molti furono i pianti di bambino, con le attrezzature scagliate via e i giuramenti di non tornare mai più, mai più. E invece tornavo sempre. A voler davvero scremare la memoria dalle edulcorazioni del tempo trascorso, bisogna dire che era una fatica di Sisifo mascherata da sport, nella quale l'attività fisica risiedeva di gran lunga più nelle salite che nelle discese. Il culmine dell'ebbrezza era presto consumato e consisteva nell'arrivare per la prima volta, tirando al massimo nella posizione cosiddetta a uovo, fino alla casetta che si trovava proprio in mezzo alla conca. Un istante prima era un orgasmo di velocità, un attimo dopo, la disperazione assoluta. Perché era quello anche il punto più basso, oltre il quale l'uomo, prima ancora dello sciatore, si trovava interamente circondato di salite, salite ovunque. Una metafora, praticamente. Un abisso di disperazione esistenziale. La grande svolta arrivò quando aprirono gli impianti; prima lo Scoiattolo e poi lo Sparviero. In realtà io scoprii l'esistenza di entrambi con congruo ritardo e solo per caso, valicando sullo slancio dello spirito d'avventura lo sperone di roccia che li nascondeva. Nessuno me ne aveva mai parlato, e io non potevo nemmeno immaginare una tale meraviglia della tecnica moderna. Fu una rivelazione, un attimo in cui mi passarono davanti agli occhi le domeniche, le settimane, i mesi, gli anni trascorsi a brevemente scendere e lungamente risalire a piedi lungo i pendii di Piano Battaglia. E non solo il passato: in quel momento anche il futuro mi apparve in un baleno di positivismo; da quel giorno in poi tutto sarebbe cambiato. Era più o meno il sessantanove, anno dello sbarco del primo uomo sulla luna. È solo questa coincidenza di date che, probabilmente, ha portato negli anni successivi a passare quasi sotto silenzio la scoperta degli skilift a Piano Battaglia. La storia certe volte è una questione di pure concomitanze. Fu più o meno a quell'epoca che apparve anche Patrizia Vizzini. (DIGRESSIONE ONOMASTICA: Le ragazze si chiamavano tutte Patrizia. Oppure: Loredana. Un po' come gli abitanti di Piano Battaglia, che si chiamavano sempre Mogavero. Per tutti gli anni sessanta non ci fu scampo, o Patrizia o Loredana. Dopo, basta. Nessuna bambina si chiamò più né Patrizia né Loredana. Neppure una. Per riavere una Patrizia o una Loredana bisognerà aspettare che le figlie di quelle Patrizie e Loredane facciano a loro volta delle figlie e che decidano di chiamarle Patrizia o Loredana in segno di omaggio alla nonna. Ci vorranno perlomeno altri dieci anni, ma non è sicuro, perché da qui a dieci anni chi è che chiamerà più le figlie con i nomi delle nonne?). Quella che dico io si chiamava appunto Patrizia: Patrizia Vizzini. Risultava perfetta per un innamoramento adolescenziale perché era molto sportiva, abbastanza da non apparire traumatica in quella precaria età maschile in cui da un giorno all'altro le bambine sono prima repellenti e poi improvvisamente indispensabili. È per questo che Patrizia Vizzini era l'oggetto del desiderio di tutti i tredici-sedicenni che andavano a zappare la neve di Piano Battaglia. Oltre a essere sportiva ai limiti del mascolino, Patrizia Vizzini era grandiosa e allegra e scafata sugli sci come in tutti generi sportivi in cui si cimentava. Non ho elementi per dirlo con certezza, ma escluderei che Patrizia Vizzini abbia avuto per imparare l'arte di prendere lo skilift tutti i problemi che invece ho avuto io. So solo che l'appresi poco a poco, cadendo e salendo, cadendo e salendo. Più cadendo che salendo. E ogni volta che cadevo, Patrizia Vizzini era lì, subito dietro di me. Lei mi vedeva ingombrare il sentiero di risalita creando uno shangai inestricabile di braccia, gambe, sci e racchette, e per me era un colpo al cuore. Lei sorrideva spietata e io morivo di vergogna. O forse non era spietatezza, ma solo allegria l'ingrediente dei suoi gran sorrisi. In ogni caso, il risultato non cambiava, ed era che io mi ritrovavo inzuppato di neve e con l'Ego ridotto ai minimi termini. Per di più Patrizia Vizzini sciava con i jeans, a significare che lei non cadeva mai, ma proprio mai, e questo particolare contribuiva a collocarla su un piano iperumano, corroborato dal fatto che appresso a lei già sbavavano diversi diciassettenni, gente grande che sapeva sciare benissimo, o comunque prendere uno skilift senza difficoltà. Per amor proprio decisi di accettare delle lezioni, amorevoli lezioni tenute dal maestro Cicero, che era la versione sportiva di Madre Teresa di Calcutta, per come affrontava e cercava di risolvere i casi di negazione sciistica più disperati. Il Maestro Cicero si impegnò allo spasimo portandomi dallo Spazzaneve al Cristiania, uno stile dal quale fu impossibile schiodarmi anche per gli anni a venire. Troppo poco per poter competere con Patrizia Vizzini e la sua corte di quasi maggiorenni, che ai miei occhi continuarono ad appartenere a una categoria umana superiore. Bisognava farsene una ragione, e io mi rassegnai innamorandomi piuttosto, ma a fondo altrettanto perduto, di Angela Stagnitta (alias, più tardi, Shoba), che vendeva gli ski-pass allacciandoli personalmente al collo degli sciatori. Per farlo, doveva sporgersi dal suo gabbiotto e abbracciare il fortunato sciatore. La cerimonia dell'allacciamento dello ski-pass finì per divenire una fonte di improvvise bufere ormonali, e persino, alla lunga, il vero motivo per cui andare a Piano Battaglia. Se non fosse costato tanto, di ski-pass avrei voluto farne dieci, cento, mille al giorno; purché ad allacciarmeli al collo fosse sempre lei. Ma dopo le prime volte mi resi conto che non era con amore che lei compiva quell'abbraccio, e che anzi lo ripeteva identico anche nei confronti di tutti gli altri sciatori disposti a pagare. Ci rimasi malissimo. A voler fare un bilancio oggettivo, quelle giornate a Piano Battaglia erano un'inutile sequenza di umiliazioni. Poco a poco me ne resi pienamente conto e ripiegai su me stesso. Smisi di seguire le lezioni del maestro Cicero cristallizzando il mio stile in una nemmeno tanto aurea mediocrità e nel giro di poco tempo il vero motivo per cui continuai ad andare domenicalmente a sciare fu la colazione a sacco. Verso la tarda mattinata ma presto, attorno a mezzogiorno cominciavo a pressare i miei familiari perché tornassimo alla macchina per consumare il pasto che c'eravamo portati dietro. Era quello il vero piacere. Col passare degli anni avevo messo a punto un panino efficacissimo, che andava oltre il pane e salame, il pane e frittata e il pane e cioccolata che tutti conoscono. Era tutte e tre cose assieme: consisteva in uno sfilatino di rimacinato farcito nel primo tratto col salame, nel secondo tratto con la frittata e nel terzo tratto con una tavoletta di cioccolata. Mangiato quello, avevo mangiato tutto. Era molto comodo, specialmente avendo l'accortezza di evitare commistioni fra secondo e terzo tratto. Poi, il pomeriggio scorreva molto brevemente. La neve di Piano Battaglia quasi mai durava dopo essere stata sottoposta al combinato disposto di sole battente e orde di zappatori. Di solito si cercava di far coincidere il ritorno con i secondi tempi delle partite di calcio, che venivano trasmessi solo quelli da "Tutto il calcio minuto per minuto". Con le partite si arrivava fino a Collesano, poi si toglievano le catene ed dopodiché era un lento scivolare nel silenzio languoroso malinconico che sempre accompagna i ritorni domenicali in macchina. Mi addormentavo nel tepore della ritrovata temperatura corporea e quasi sempre mi svegliavo quando eravamo arrivati ormai a Villabate, tanto all'improvviso da pensare che potesse essere stato tutto un sogno: sci, skilift, Patrizia Vizzini, Angela Stagnitta, il maestro Cicero, il panino multiplo e Piano Battaglia nella sua interezza. Che a ripensarci adesso era, nel suo piccolo, la migliore approssimazione possibile alla felicità invernale, almeno a queste latitudini. Appunto per questo ancora oggi sospetto che fosse solo un sogno fatto dormendo sul sedile di dietro dell'automobile. A pensarci bene: è sorprendente quanto poco sia durato il viaggio di ritorno.
Roberto Alajmo | 27/01/2006
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