PER MINO BLUNDA
Cinque righe di necrologio sulle pagine locali di Repubblica sono un contrappasso che sarebbe piaciuto all'ironia di Mino Blunda. Una semplice, telegrafica notizia che amplifica la strizzata al cuore di chi lo aveva conosciuto anche soltanto un po'. Il colonnino di cinque righe gli sarebbe piaciuto perché era la sua misura canonica, la distanza su cui meglio sapeva misurare il suo talento di scrittore. Eppure a suo tempo era stato un uomo potente, e come scrittore, a un certo punto, Adelphi aveva creduto di puntare su di lui. L'Inglese ha visto la bifora era un atto unico esile e raffinatissimo, che pareva rappresentare il punto di partenza per una grande carriera di poeta. Solo che, come certi cavalli che scartano di fronte l'ostacolo, Mino Blunda decise che la carriera di poeta ufficiale, o anche solo ufficioso, non faceva per lui. Non che teorizzasse nulla, né mai nella sua scelta lasciò trasparire l'ombra di un oltranzismo: sta di fatto che aveva salutato la famiglia e gli amici palermitani per trasferirsi a Erice in una specie di eremitaggio. Faceva brevi passeggiate, ma per la maggior parte del tempo rimaneva a distillare parole, con un ideale alambicco dalle dimensioni molto piccole. A valle non scendeva quasi mai, limitandosi a scrivere una o due parole al giorno, e spesso cancellandole l'indomani. Per un certo tempo i suoi drammi o radiodrammi erano circolati fra pochi suoi affezionati lettori, poi nemmeno più quello. Era, fra l'altro, un lettore accurato e generoso di consigli, sempre in nome della sobrietà. Cinque righe di necrologio dovevano bastare. Queste altre gli sarebbero sembrate di troppo, da tagliare senz'altro.
Roberto Alajmo | 15/01/2006
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