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DA "GIUDIZIO UNIVERSALE"

È bello tornare a Londra dopo tre lustri e ritrovare tutto uguale e tutto diverso. Uguale il ponte, diverso il suppostone di Norman Foster che contraddistingue lo skyline della City. Uh: hanno persino rimesso in scena i Miserabili, che quindici anni fa spopolava. Poi vai a guardare e scopri che non è una ripresa: sono ventun’anni che i Miserabili vengono replicati ininterrottamente. Certo, una città come Londra può contare su un ricambio continuo di spettatori da tutto il mondo, per cui il teatro continua a essere strapieno. Ma perché allora a Venezia, per dire, con il flusso turistico che si ritrova, non si registra nemmeno lontanamente una tradizione teatrale radicata come quella londinese? Eppure siamo nella patria di Goldoni, della Commedia dell’Arte, eccetera eccetera. Per capirlo provo ad andare a vedere il più fesso dei musical in programmazione a Soho: Mary Poppins. La vicenda è quella che è, persino mio figlio si annoia all’idea di trascorrere tre ore a ripassare la storia della Tata-Maghella. Dopodiché bastano dieci minuti, un cambio di scena, due balletti, e ogni pregiudizio si squaglia senza lasciare tracce. A parte i voli della protagonista da un capo all’altro della sala, platea compresa, è lo sfarzo dell’allestimento che colpisce. È la bravura e la versatilità degli interpreti. A un certo punto Ben - lo spazzacamino, il fidanzato-ombra di Mary Poppins –, grazie a un’imbragatura invisibile, fa a piedi un giro completo dell’arco scenico, e questo senza mai smettere di cantare, anche quando si ritrova a testa sotto. Il pensiero corre all’arte statuaria che contraddistingue i nostri cantanti d’opera, che se appena il regista prova a metterli di tre quarti rispetto al pubblico, si offendono e minacciano di abbandonare le prove. Magari la differenza fra Londra e Venezia, fra teatro inglese e spettacoli italiani, è tutta qui.

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Roberto Alajmo | 12/05/2008

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