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DAL DIZIONARIO AFFETTIVO DELLA LINGUA ITALIANA (FANDANGO EDITORE)

VERGOGNA. Singolare femminile: termine desueto che stava a indicare il turbamento interiore che ci assale quando ci rendiamo conto di aver agito o parlato in maniera riprovevole o disonorevole. La parola ha cominciato a scomparire rapidamente più o meno alla fine degli anni ottanta. All’epoca della caduta del muro di Berlino. Assieme a quello, è caduto pure un altro muro. Un muro psicologico. Il muro della vergogna. Non che prima fosse un muro invalicabile, tutt’altro. Gli sconfinamenti oltrecortina erano continui, e spesso senza ritorno. Ma c’erano sempre delle guardie pronte a sparare per cercare di intercettare ogni tentativo di fuga. Poi, improvvisamente, liberi tutti. La caduta del muro della vergogna ha portato un imprevedibile effetto valanga che solo adesso si riesce a valutare nelle sue proporzioni. Per dire: se prima a un tizio passava per la testa di dire una cazzata, andava al bar e la diceva. Lì era sicuro di trovare comprensione e pacche sulle spalle, oltre che qualche superalcolico che lo aiutasse a corroborare le sue opinioni. Adesso, invece, se a qualcuno venisse il ticchio di dire che per fermare gli sbarchi degli extracomunitari bisogna usare i cannoni della marina, non andrebbe a dirlo al bar sotto casa. Andrebbe a dirlo in televisione. O addirittura in parlamento. Altro esempio: prima della caduta del muro si cercava di nascondere le lacune della propria cultura. Si millantavano letture mai fatte: Joyce, Musil, Proust. Col passare degli anni è prevalso l’esatto contrario, vale a dire l’orgoglio della nostra ignoranza. Ci vantiamo di non aver mai letto un libro. Lo diciamo pubblicamente, ridendo e irridendo chi è diverso da noi. Quello della vergogna era un diaframma sottile ma determinante. Era quel diaframma che impediva di ballare a chi di noi non sapeva ballare, di recitare a chi non sapeva recitare, di accedere a cariche istituzionali senza esserne all’altezza. È noto che per molto tempo gli exit poll elettorali si sono rivelati inaffidabili perché, all’uscita del seggio, ci vergognavamo di aver votato come avevamo votato: l’avevamo fatto di nascosto, nel segreto dell’urna. Non erano confessioni da farsi in pubblico. Ora, invece, prima di uscire di casa ci mettiamo il distintivo all’occhiello. Ci sono cose che vent’anni fa ci vergognavamo di pensare, nostre opinioni che ci rifiutavamo di condividere, e che adesso si sono trasformate in verità incontrastate. La caduta del muro della vergogna ha portato allo sdoganamento del rutto e all’ostentazione del pubblico spetazzamento, all’insolenza gratuita e compiaciuta. Al tramonto di quella forma di onesta dissimulazione che per una lunga epoca della civiltà occidentale ha impedito di chiamare pubblicamente culattoni gli omosessuali. L’ideale sarebbe vergognarsi tutti un poco, ogni giorno, anche sforzandosi. Come una specie di ginnastica. A lungo termine, un’ora settimanale di vergogna nelle scuole sarebbe l’ideale per tentare un recupero del senso del pudore. Sul breve periodo, invece, si potrebbero creare delle cliniche di rieducazione alla vergogna. Tutte infermiere svizzere, calviniste, che ci trattino come si trattano i gatti quando fanno la pipì in salotto, strofinandoci sopra il muso ogni volta che ne combiniamo una. Si potrebbe pensare a una forma di ricovero volontario collettivo, con lo scopo di recuperare almeno in parte la prospettiva delle cose. Non ci sarebbe nulla di cui vergognarsi. (Stefania Cucciardi: Per Ale)

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Roberto Alajmo | 01/10/2008

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